La seconda guerra mondiale vista da Monselice (1939-1943)

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CAPITOLO PRIMO

 LA SECONDA GUERRA MONDIALE VISTA DA MONSELICE (1939-1943)

a parte del libro

DA   MONSELICE  A  MAUTHAUSEN

La storia di otto monselicensi morti nei campi di concentramento tedeschi.  Opuscolo è disponibile in formato PDF  [clicca qui…]

 

 


 

Premettiamo alle vicende monselicensi, alcune notizie storiche di carattere generale per facilitare i lettori più giovani alla comprensione del particolare periodo storico a cavallo degli anni ‘40 del secolo scorso, nel quale operarono i protagonisti di questa storia. Maggiori informazioni sono contenute nei numerosi manuali di storia stampati in questi anni. Consigliamo: A. GIARDINA – G. SABBATUCCI – V. VIDOTTO, Manuale di Storia. III L’Età contemporanea, Bari 1996; G. SPINI, Disegno storico della civiltà. III, Firenze 1980.

Uno sguardo all’Europa

Dopo un ventennio di propaganda delle ideologie nazista e fascista, la seconda guerra mondiale ebbe inizio il 1° settembre 1939 con l’avanzata delle truppe tedesche oltre il confine polacco. Immediatamente la Francia e l’Inghilterra dichiararono guerra alla Germania. Mussolini, benché fosse stato sorpreso dall’iniziativa hitleriana, che non rispondeva alle assicurazioni ricevute dalla Germania qualche mese prima durante lunghe e difficili trattative diplomatiche, si limitò a chiedere il consenso del Fuhrer ad una dichiarazione di non belligeranza, per cui l’Italia, senza dichiararsi neutrale, annunciava di astenersi dal prendere iniziative belliche. Era l’inizio di un conflitto mondiale che avrebbe causato quasi 9 milioni di morti e cambiato radicalmente l’assetto politico del mondo.

In pochi giorni (9-28 settembre 1939) la Polonia fu occupata dai tedeschi. Stalin contribuì alla disfatta polacca siglando un trattato di amicizia russo-tedesco che prevedeva la spartizione dello stato appena occupato dalla Germania e il controllo sovietico su Lettonia, Estonia e Lituania. La Finlandia, che rifiutò una imposizione analoga, venne attaccata dalla URSS e, dopo alcuni mesi di eroica resistenza, fu costretta a capitolare.

L’Italia era stata colta di sorpresa dal precipitare della crisi. Allo scoppio delle ostilità, non aveva potuto far altro che annun­ciare la propria non belligeranza, giustificandosi con l’impreparazione ad affrontare una guerra di lunga durata. In effetti, l’equipaggiamento delle forze armate, già scar­so e antiquato, era stato ulteriormente impoverito dalle imprese in Etiopia e in Spagna. Il crollo della Francia contribuì a spazzar via le ultime esi­tazioni di Mussolini e a vincere le resistenze di quei settori della classe dirigente che, fino allora, si erano mostrati meno favorevoli alla guerra. Anche l’opinione pubblica cambiò orientamento di fronte alla prospettiva di una vittoria da ottenersi con pochissimo sforzo, al massimo con «qualche migliaio di morti da gettare sul tavolo della pace». Il 10 giu­gno 1940, dal balcone di Palazzo Venezia, il Duce annunciava a una folla plaudente l’entrata in guerra dell’Italia «contro le democrazie plutocra­tiche e reazionarie dell’Occidente».

Le vicende militari iniziarono però nel peggiore dei modi. La guerra contro la Francia si concluse con pesanti perdite. Nel Mediterraneo la flotta italiana subì, in luglio, due successive sconfitte da parte di quella britannica. In Africa settentrionale, l’attacco lanciato in settembre dal territorio libico contro l’Egitto dovette arrestarsi ben presto per l’insufficienza dei mezzi corazzati.

Ai clamorosi successi militari dei tedeschi, Mussolini non aveva potuto contrapporre che azioni insignificanti. Per uscire dun­que da questa sempre più evidente condizione di inferiorità, attaccò di sorpresa la Grecia (28 ottobre 1940), contando di poter­sene impadronire facilmente. L’attacco venne però respinto ed una controffensiva greca penetrò sin dentro l’Albania. Nel frattempo, un attacco di aerosiluranti inglesi a Taranto paralizzava la flotta ita­liana, colpendone varie navi da battaglia. Badoglio dovette ab­bandonare il comando. Al suo posto fu nominato il generale Cavallero. L’illusione di una guerra breve e vittoriosa si stava trasformando in una tragedia nazionale.

 

Monselice durante la guerra. Il podestà Annibale Mazzarolli

La città di Monselice, allo scoppio della seconda guerra mondiale, era saldamente governata dal podestà Annibale Mazzarolli. Uomo colto ed intelligente, lo definisce Celso Carturan, si dedicò con tenacia alla sistemazione del bilancio comuna­le. Apparteneva all’alta borghesia burocrati­ca padovana, proprietario col fratello di una va­sta tenuta a Conegliano. Si dilettava di musica e scri­veva, soprattutto di storia. Il Mazzarolli fu un cattolico convinto e un fascista perfetto – scrive Merlin – che volle riaffermare in modo addirittura teatrale la propria fede il giorno stesso del suo insediamento, recan­dosi prima in canonica e poi in municipio.

Durante il suo mandato (1927-1943) realizzò importanti opere pubbliche, ammodernando la città e le frazioni. Tra i progetti realizzati dal Mazzarolli segnaliamo la riorganizzazione del servizio del corpo volontario dei pompieri; la riduzione a scuole elementari dell’ex canonica di S. Martino lasciata libera dal sacerdote che si sistemava in altra casa poco lontana; l’estensione dell’illuminazio­ne elettrica alle frazioni cittadine. A San Cosma e a Monticelli furono costruite le scuole. Fu rifatto il ponte girevole in ferro che unisce le vie XI Febbraio e riviera Belzoni; fu sistemato l’Ente Autonomo Case Popolari, costruite due nuove pese pubbliche, trasferite le carceri nella sede in via S. Stefano superiore. Fu sollecitata e realizzata la costruzione della nuova strada di circonvallazione per eli­minare il passaggio sempre più intenso, per le strade del centro, di autocarri e di pesantis­simi autotreni, che causavano non lievi difficoltà ai monselicensi. Ricordiamo, fra i provvedimenti edilizi podestarili di quel tempo, l’abbattimento della sala Garibaldi per dare libera vista al castello Cini e i restauri del palazzo ogivale (l’ex sede del Monte di Pietà) nel quale furono trasferiti sia la biblioteca comunale che l’ufficio po­stelegrafonico, su progetto e direzione dell’ing. Giobatta Rizzo. “Questo lavoro” – precisa Carturan – “fu finanziato dal senatore Vittorio Cini, che mise a disposizione del Comune notevoli capitali per la sistemazione edilizia della nostra città, che sarebbe divenuta forse un fatto compiuto se la guerra non ne avesse impedito la concreta esecuzione” (cfr. C. CARTURAN, Memorie di storia monselicense. Dall’Unificazione alla seconda guerra mondiale. A cura di F. ROSSETTO. Monselice 1990).

A causa di questo suo ossessivo rispetto della quadratura del bilancio, unito ad un ca­rattere ribelle e non facilmente adattabile alla diplomazia necessaria per esercitare il pote­re, egli si creò molte inimicizie ed una latente impopolarità. Non viveva a Monselice. Giungeva ogni tanto da Padova o da Cone­gliano dove risiedeva; non conosceva i suoi amministrati, né po­teva essere da loro emotivamente coinvolto. Il con­senso, per lui come per il Carturan, doveva in primo luogo venire dall’alto, in quanto entrambi si ritenevano fedeli servitori dello Stato. E spesso i segretari politici si lagnavano delle sue asprez­ze, del fatto che non teneva conto delle particola­rità locali e non partecipava alla vita culturale e sociale di Monselice.

Il Mazzarolli ricoprì la carica di podestà ininterrottamente per ben 16 anni. “Negli ultimi anni diceva di sentirsi stanco” – confida Celso Carturan nelle sue memorie – “per la lunga durata del suo incarico, ma riteniamo che avrebbe continuato la sua attività ancora per qualche anno, anche per portare a termine i suoi progetti. Ma intervennero alcuni incidenti che lo convinsero a dimettersi”. Nel 1942 infatti si creò un dissidio tra lui ed il Segretario federale. Pare che le cause della diatriba fossero estranee al mandato podestarile, ma come spesso accade, esse non poterono non ripercuotersi negativamente sul suo mandato amministrativo. La Prefettura, per la tensione sopravvenuta nei rapporti tra il Mazzarolli e l’autorità politica del partito, non poté più ignorare le lagnanze relative al fatto che egli viveva lontano da Monselice. Era presente in municipio soltanto raramente, con la conseguenza di potersi solo in parte rendere conto delle esigenze cittadine. Alla richiesta del Prefetto di assicurare la sua presenza in Monselice, almeno per qualche giorno la settimana, rispose col rifiuto di prendere tale impegno, preferendo dimettersi dal suo mandato.

 

Monselice durante la prima fase della guerra

Fin dal 21 giugno 1940 aveva preso stanza a Monselice 1’81° Fanteria della divisione “Torino”. Ben oltre 4000 soldati avevano letteralmente invaso il nostro centro, accaserman­dosi nei granai e in tutti i locali, disponibili e non, dando un senso di gioiosa vita alla città. Musica in piazza quasi ogni sera, concerti e spettacoli, marce giornaliere a passo ro­mano, grande giubilo delle ragazze ….. più o meno giovani, che fraternizzavano an­che troppo volentieri con i soldati. In campo della “Fiera” era stato allestito per i soldati un piccolo teatrino all’aperto, frequentato anche dai monselicensi.

Il 20 agosto 1940 il Principe ereditario, accompagnato dal suo aiutante di campo e dai generali Zingales e Vercellino, venne a Monselice per passare in rivista le truppe residenti. La parata si effettuò nella località detta la “Verta”, di fronte al convento di S. Giacomo, tra la strada provinciale e l’argine del canale. La cerimonia iniziò alle ore 9 e la sfilata av­venne a passo romano fra i canti della patria. Per volontà del Principe nessuna pubblica manifestazione venne fatta in suo onore.

Dal 17 al 19 settembre furono di passaggio per Monselice, con una giornata di sosta, i battaglioni della Gioventù del Littorio di Pado­va, Trieste, Livorno, Modena, Bologna, Verona e della Sicilia, diretti a Padova. L’arrivo e la partenza furono salutati da cerimonie di grande solennità. In piazzetta S. Marco, al momento della partenza avvenuta il giorno 19, su apposito palco presero posto tutte le autorità civili e militari, compreso il poeta futurista  Marinetti che a Monselice era riuscito a formare un gruppo di “aereopoeti”. Il saluto fu dato con canti, suoni e discorsi. “Anche questa fu una delle solite parate organizzate dal fasci­smo per tenere desto l’entusiasmo del popolo quale contropartita ai disagi della guerra”, commenta il Carturan.

Ma l’avvenimento più significativo di quel periodo è stato l’arrivo, il 7 ottobre 1940, di Mussolini a Monselice per passare in rivista due grandi unità autotra­sportate, le divisioni “Pasubio” e “Torino”, costituenti l’Armata del Po comandata dal ge­nerale Vercellino, che aveva in Monselice il suo quartier generale. L’amministrazione comunale preparò un’accoglienza strepitosa, senza badare a spese. Il Duce arrivò alle 9.45. La città era completamente imbandierata; le scalinate del municipio, l’antistante piazzetta e le contrade che conducevano al campo della rivista rigurgitavano di popolo acclamante. All’ingresso della città erano ammassate le donne “prolifiche” alle cui famiglie il Duce elargì la somma di L. 20.000. La rivista ebbe luogo anche questa volta di fronte al convento di S. Giacomo, tra la strada provinciale e l’argine del canale. Lo spettacolo offerto era davvero imponente. I soldati – scrivono i cronisti – “immobili sugli autocarri serrati l’uno all’altro, davano 1’impressione d’una massa compatta, che luccicava ai rag­gi d’un sole magnifico. Il Duce, passati in rassegna i fanti e l’artiglieria, salì sull’argine del canale da dove, sul podio preparato, ammirò la gigantesca massa d’acciaio che si estendeva nella sottostante spianata ed assistette ai canti della marcia reale, di Giovi­nezza e dell’Inno dell’Impero, intonati in coro da tutte le truppe”. Sulla strada erano schierati molti dei frati del nostro convento e padre Egidio Gelain, insegnante di fisica nel nostro collegio missionario francescano, faceva funziona­re un piccolo apparecchio radio di sua creazione, con altoparlante. Mussolini passò a piedi davanti alla schiera dei monaci plaudenti, sorridendo loro ed esclaman­do: «Ecco i miei frati, così mi piacciono i frati». Si soffermò dinanzi a padre Giorgio, insegnante di filosofia nel suddetto collegio, e gli chiese di toccare il suo cordone quale portafortuna. Padre Giorgio gli offrì il cordo­ne, che Mussolini toccò con la mano dicendo: «Oggi sarà una bella giornata». Le spese relative alla cerimonia di quel giorno, compreso l’imbandieramento della Rocca, furono sostenute dal senatore Vittorio Cini.

L’entusiasmo manifestato dall’arrivo del Duce non contribuì certo a migliorare la situazione economica dei monselicensi, che dovevano fare i conti con l’economia di guerra che aveva sconvolto l’attività produttiva mondiale. Tutto il sistema produttivo era condizionato dalle esigenze belliche. L’esercito italiano, impegnato in Russia, in Africa e nei Balcani, aveva bisogno di mezzi e materiali in misura sempre crescente e lentamente l’industria si adeguava ai bisogni militari. Molte piccole industrie non avevano più mercato ed erano costrette a chiudere, altre lavoravano solo per le esigenze del fronte.

Si attivarono numerosi “accaparratori” che facevano sparire i prodotti di prima neces­sità come il caffè e lo zucchero, disponibili solo sul “mercato nero”. Anzi, fin dal 1940 iniziò a prosperare un mercato clandestino che fruttò facili guadagni a quanti lo esercitavano, nonostante le misure repressive subito messe in atto dalle forze dell’ordine. Aumentava il costo della vita ed aumentavano i tributi, mentre le paghe erano in diminuzione.

Una lettera anonima inviata al capitano della milizia di Monselice riassume in modo esemplare la situazione di quel particolare momento storico:

Non si meravigli nel leggere questa lettera, ma spero che vi farà piacere. Io credo che voi amiate questa Monselice e che vi interessiate per il popolo, che è stanco di patire e si rivolge a voi per chiedere aiuto. Qui il Comune non pensa più a nulla, sicché pensate voi a provvedere al stretto bisogno di questa povera gente che certo non può più ricorrere al mercato nero; di questi briganti che tutti i giorni aumentano i prezzi; questa povera gente non ha più nulla da privarsi … e tocca patire con i suoi figli e vederli crescere ammalati .. Il Duce vostro ama i piccoli, ma non sa quando la maggioranza patisce. Per esempio la marmellata perché non la danno? Qualche uovo a sette lire l’uno, chi lo da?  Tutto niente? Perché i negozianti come Bianco vanno a gara a vendere le uova care per guadagnare loro … Perché non sequestra le uova ai negozianti e le [fa] vendere a prezzo che anche la povera gente possa prenderne qualcuna. E la carne: perché tutti i giorni c’è carne a 90 lire il chilo? E il lardo a 240? Salami lo stesso? ..A quel prezzo chi li mangia? Solo i ricchi e voi che andate incontro al popolo dovete fare andare le cose diversamente: [fate abbassare i prezzi anche nei nostri paesi di campagna in modo tale che ci sia da mangiare anche per la povera gente]. Fate qualcosa cosa, cosi che il popolo vi amerà e dirà bene di voi altrimenti si attenderà volentieri la Russia, chissà che sia quella che ama il popolo povero.[Firmato un povero papà]

 

Per far fronte alle prime necessità il comune ricorre alla somministrazione di cibo presso l’ECA, anche se di pessima qualità. L’economia di guerra causa 500 disoccupa­ti e anche la fornace di laterizi viene chiusa per mancanza di carbone, di calce e di compratori.  In aprile, finalmente, i salari vengono in parte ade­guati ai nuovi prezzi per cui a Monselice “le mae­stranze di buon grado hanno aderito a riunirsi nelle piazze per manifestare riconoscenza al Duce”.

Già in ottobre, tuttavia, quando, per motivi eco­nomici, anche gli assegni familiari vengono tolti ai lavoratori agricoli, le illusioni tendono a cadere. La guerra non pare brevissima perché l’annuncia­to sbarco in Inghilterra non avviene e giungono le prime voci sulle nostre difficoltà al fronte greco. Ai bollettini si crede sempre meno e le lettere di guerra arrivano sempre più censurate.

L’inverno 1940-41 è molto rigido e molto difficile per la mancanza di combustibili. Diventano introvabili i fondamentali prodotti ali­mentari, si fa più vistoso il divario fra i più ric­chi e la massa dei poveri. Il morale della popolazione è piuttosto depresso sia per lo stato di guerra che si prevede sarà molto lungo, sia per le condizioni economiche che si aggravano sempre più a causa del continuo aumento del costo della vita. Nei paesi, gruppi di donne si recano nei municipi a lamentare la mancanza di viveri.

La vita pubblica è ritmata dalle esigenze della guerra e, addirittura, il 29 novembre 1942 viene richiamato per il servizio militare con funzione di “cappellano militare” destinato a Zante in Grecia, anche il giovane sacerdote Don Giulio Bovo di San Bortolo.

Il soldato Giovanni Grossele di San Bortolo scrive nel 1943 alla sorella Agnese dichiarando di essere pronto a dare per la cara Italia “con felicità e con spontaneità tutta la mia giovane esistenza, sacrificando anche il mio avvenire, che fu, è, e sarà, l’unica speranza che mi sostiene, per il quale io sopporto l’attuale periodo di vita, e per il quale mi riprometto d’essere un giorno tanto felice!” Pochi giorni dopo sarà  “internato” in Germania, con una prospettiva piena di dubbi e di pericoli, come per moltissimi altri soldati italiani.

Nascita del fascismo a Monselice

Le prime squadre fasciste e le prime loro azioni apparvero sulla scena politica nella nostra zona nel 1921. Già da qualche mese, nella nostra stazione ferroviaria, fra i sottocapi era entrato in servizio un certo Breccia, fascista fiero e risoluto, il quale gradatamente iniziò fra i 120 ferrovieri locali un’ardita campagna in favore del programma fa­scista. A Monselice gli squadristi erano rappresentati da molti agrari e da alcuni giovani del centro; fra i più attivi vengono ricordati: Bonivento, Breccia, Bovo, Soldà, Vescovi, Turet­ta, Scarparo, Rossato, Valerio e Salini. Si univano a questi, nella caccia agli avversari politici, gli squadristi dei comuni vicini, specialmente di Este, poiché i fascisti di vari centri apparte­nenti ad una stessa zona si aiutavano a vicenda, a seconda delle esigenze dell’azione da svolgere.

La caccia e le rappresaglie contro i “rossi” si effettuavano con metodi più o meno in­tensivi. Si scovavano nelle case, nei ritrovi, per le strade, coloro che erano stati segnati nel libro nero. Dall’olio di ricino, che si faceva inghiottire in grosse dosi ai meno temibili, al manganello che si adoperava contro i più duri, si arrivava alle spedizioni punitive, condotte da nuclei bene armati che, con automezzi o in altri modi, si portavano nei centri o nelle campagne con azioni d’assalto, ingaggiando anche dure schermaglie. I fascisti vestivano una divisa a foggia militare ed erano armati in piena regola. Tut­to ciò senza permessi di autorità costituite, le quali gradatamente si erano lasciate pren­dere la mano.

Tuttavia – secondo Carturan – a Monselice “nella maggioranza della popola­zione nei primi tempi il fascismo non fu troppo sentito. Un senso d’apatia e di indifferente attesa si manifestò e si mantenne, tanto che nel 1925 il segretario federale padovano Alezzini, in una riunione al teatro Massimo, sferzava aspramente il contegno del nostro ambiente politico. Gradatamente però l’azione totalitaria del partito s’impose anche qui, tenen­dosi pur sempre conto che la nostra popolazione non si è mai abbandonata ad eccessivi entusiasmi in qualunque momento e per qualsiasi concezione politica, se si eccettuano i brevi periodi elettorali, quando erano in contrasto i programmi dei vari partiti ed in pa­lio i denari dei vari candidati”.

 

L’organizzazione fascista e i gruppi giovanili

Anche a Monselice il fascismo, attraverso la casa del Fascio, cercava di organizzare il consenso della popolazione sul piano culturale, sociale e sportivo. Nel nostro comune furono attivati, dai vari segretari del Fascio e sotto la supervisione del federale di Padova, tutti gli organismi tipici del fascismo che, assieme ai movimenti giovanili e la scuola, furono lo strumento privilegiato destinato a formare 1’ “uomo nuovo fascista”.

Brevemente, a livello nazionale ricordiamo la costituzione dei (GUF) Gruppi universitari fascisti creati nel 1920 in ambito studentesco, che raccoglievano ra­gazzi e ragazze dai diciotto ai ventotto anni. Comparvero poi i Balil­la (dal nome di Giovanni Battista Perasso, il ragazzo genovese, detto “Balilla”, che nel 1746 aveva dato il segnale della rivolta contro gli austriaci tirando un sasso) composti da ragazzi fra gli otto e i quat­tordici anni; gli Avanguardisti (che comprendevano i maschi dai quattordici ai diciotto anni); le Piccole italiane (che inquadravano le bambine dagli otto ai quattordici anni); le Giovani italiane (che rag­gruppavano le adolescenti dai quattordici ai diciotto anni). Nel 1930, furono creati infine i Fasci giovanili di combattimento, nelle cui file furono accolti i giovani di età superiore ai diciotto anni, e quindi, nel 1934, i Figli della lupa, che organizzavano i bambini dai quattro agli otto anni. Nel 1937 le associazioni giovanili raccoglievano circa 8.000.000 di bambini, adolescenti e giovani adulti. I Balilla e gli Avanguardisti (complessivamente 80.000 membri nel 1926), all’inizio posti sotto la diretta tutela del Partito nazionale fascista, vennero integrati, il 3 aprile 1926, nell’Opera nazionale balilla (ONB), organizzazione che dipendeva dal capo del governo. Le giovani dipendevano dai Fasci femminili, mentre i GUF e, in seguito, i Fasci giovanili di combattimento, continuarono a essere sotto il controllo del PNF. L’ONB aveva il compito di provvedere all’educazione fisica e morale, vale a dire ideologica, dei giovani dagli otto ai diciotto anni. L’iscrizione era facoltativa e si esigeva il consenso dei genitori. Fino al 1928 le attività si incentrarono soprattutto sullo sport e sulle manifestazioni culturali. Nel 1928 si accelerò la fascistizzazione del movimento e il fulcro del­la sua attività divenne l’addestramento premilitare. Avanguardisti e Balilla erano suddivisi in reparti, manipoli, centurie, coorti e legioni ed erano capeggiati da graduati e ufficiali della Milizia. D’estate, i bambini venivano inviati a colonie marine o montane, dove venivano indottrinati al patriottismo e al culto del Duce. Ogni anno i1 21 Aprile, anniversario della fondazione di Roma, l’ingresso degli Avan­guardisti (e delle Giovani italiane) nelle file del PNF era occasione di una grande cerimonia, la Leva fascista, simbolo del rinnovamento delle generazioni fasciste. Il numero dei membri dei movimenti giovanili fascisti ebbe un forte incremento nel 1931, in seguito allo scioglimento di tutte le associazioni giovanili cattoliche e al compromesso, raggiunto nel settembre dello stesso anno, tra regime fascista e Chiesa cattolica, che limitò 1’att­ività dell’Azione cattolica al solo ambito religioso. Nel gennaio 1933 si contavano 386.000 Balilla, 244.000 Avanguardisti, 720.000 Piccole italiane e 92.000 Giovani italiane. Nel 1937, quando l’iscrizione di­venne obbligatoria, le varie formazioni contavano circa 5.000.000 di aderenti. Nell’ottobre dello stesso anno tutte le organizzazioni venne­ro raggruppate nella Gioventù italiana del littorio (GIL), affidata al controllo del PNF. Starace le impose la parola d’ordine “Credere, obbedire, combattere”, le diede un’organizzazione militare e un obietti­vo preciso: la preparazione fisica e morale alla “difesa della rivoluzio­ne fascista”, in altre parole, alla guerra (Cfr. Dizionario dei fascismi, Bompiani 2002).

 

La nuova casa del Fascio a Monselice

La casa era stata incendiata nel 1928. Dopo numerosi spostamenti, nel 1935 il segretario del Fascio di Monselice avv. Soldà ottenne dal Comune l’uso del fabbricato dell’ex calzaturifi­cio Canale, per utilizzarlo come sede del Fascio locale. Attualmente lo stesso edificio viene usato come sede delle RSA, in via della Repubblica. Essa era dotata di una sala teatrale, di un buffet, di una piccola biblioteca, di un campo per il gioco delle bocce e di un campo da tennis; ospitava pure, in apposi­te stanze, le sedi di tutte le associazioni sindacali, sportive e politiche legate al regime.

Nella casa del Fascio si riunivano soprattutto le varie asso­ciazioni dei combattenti, l’Opera Nazionale Dopolavoro (GUF), il circolo culturale Savarè, costituito da una ventina di stu­denti futuristi che si cimentarono nella pittura, nella poesia e nella musica. Tra questi, i pittori Italo Fasolo e Corrado Forlin, che ebbero l’onore di esporre le loro opere anche nelle Biennali di Ve­nezia . Monselice ebbe una risonanza a livello nazionale. Il Gazzettino del 25 giugno 1942,  ad esempio, riportava l’attività di Corrado Forlin – esponente del gruppo futurista “Savarè: Ardentismo di quota 731”. Forlin aveva al suo attivo undici mostre di aereopittura di guerra e organizzato numerose serate di poesia con conferenze, durante le quali esponeva il suo concetto dell’arte futurista e denigrava “la natura morta”. La sua attività, secondo i critici del tempo, “è volta a valorizzare un’arte – vita. Numerosi giovani lo hanno fiancheggiato per fare di Monselice una centrale futurista impegnata a distribuire aereopoesie di guerra ai combattenti di terra,mare,cielo”. Il Gazzettino del 24 luglio 1942 riporta la notizia che lo stesso Marinetti inaugurò a Monselice la centrale Futurista. Durante la manifestazione, l’allora giovane Vittorio Rebeschini “declamò” il poema “Savarè” di Marinetti. Le aereopoesie inviate al fronte incontrarono – secondo il Gazzettino – nobili consensi, come dichiara il tenente di vascello Andrick che ebbe modo di leggere uno degli opuscoli inviati ai combattenti dai poeti monselicensi.

Dall’11 gennaio 1941 il Fascio di combattimento di Monselice fu retto dal camerata Bruno Barbieri, che avrebbe, due anni dopo, ricoperto la carica di podestà. Dal dicembre 1941 i monselicensi vengono invitati ad offrire la lana per “i nostri fratelli combattenti”. Tra tutti si distingue il conte Balbino Balbi Valier che offre la somma di £ 100. Il partito, ogni anno, in occasione del Natale organizza la “Befana fascista”, che prevede la distribuzione nella casa della “Giovane Italiana” in via Garibaldi, di pacchi ai figli dei camerati richiamati più bisognosi. Tutto viene razionato e il Comune comunica, anche attraverso i giornali, i giorni durante i quali l’ufficio annonario distribuisce i buoni per il prelevamento dei generi alimentari.

Dalla casa del Fascio vengono organizzate mille iniziative per incrementare la produzione agricola da inviare al fronte. Anche il campo di calcio viene seminato a grano. Per la popolazione l’8 febbraio 1942 viene organizzato un corso di coniglicoltura, mentre il 1° marzo 1942 vengono organizzate gare per allevamento di api, di orticoltura, di ortofrutticoltura, di erboristeria, che prevedevano premi per i migliori agricoltori.  Nei mesi di giugno i giornali davano gran risalto alla mietitura del grano:  “Il grano di quest’anno [1942] ci darà la vittoria definitiva. Bisogna però che tutti gli agricoltori compiano il loro dovere conferendo il grano all’ammasso”, riferivano i cronisti del tempo aderendo alle richieste del partito. Tra le fattorie monselicensi quella di Angelo Zambon ebbe l’onore di finire fotografata sul Gazzettino, assieme ad un articolo che illustrava l’attività delle camicie nere sul Don.

Per sollecitare la popolazione a limitare il consumo di generi alimentari vengono organizzate apposite conferenze sull’alimentazione e contemporaneamente la razione di carne viene ridotta a 100 grammi con osso alla settimana.

Non mancavano neppure le rubriche culturali. Grande rilievo veniva dato all’attività dell’istituto germanico padovano che organizzava corsi di tedesco per tutta la popolazione. Tuttavia, già dal mese di dicembre 1942, vengono organizzati corsi per illustrare ai cittadini come difendersi dai bombardamenti aerei, mentre i giornali annunciano che vengono potenziate le misure per la protezione aerea, presentando un rivoluzionario aereo che avrebbe risolto ogni problema per l’aviazione.

 

L’attacco alla Russia

Nella primavera del 1941, Hitler si accingeva a ristabilire la situazione in Libia e nei Balcani, compromessa dalle sconfitte ita­liane. In Libia, il generale tedesco Rommel, ricacciò gli inglesi dalla Cirenaica. Nei Balcani, altre forze germaniche procedevano a nuove fulminee con­quiste. La Bulgaria si sottomise senza resistenza, lasciando entrare le truppe tedesche e firmando il Patto Tripartito; la Jugoslavia fu assalita da forze tedesche, italiane, ungheresi, bulgare, ed annientata in pochi giorni. Entro maggio crollò anche la Grecia, assalita da tedeschi ed italiani. La Jugoslavia fu spartita tra i vincitori. La Croazia fu eletta regno per un fratello del duca di Aosta. Qualche mese dopo il Gazzettino del 27 agosto 1942 riporta una lettera del fante Guerrino Bertazzo, impegnato sul fronte balcanico. Bertazzo scrive alla famiglia di Antonio Checchetto: “desidererei tornare in patria per vedere la mia famiglia e gli amici ma comprendo il bisogno e le necessità della nostra Italia. Noi attendiamo l’ora buona per provare che solo con il combattimento si serve la patria in armi. Noi siamo grati al Duce che ha saputo unificare tutti i popoli e portarli alla lotta contro il nemico. Siamo convinti che il nemico sarà travolto e condotto nel più profondo abisso. La nostra vittoria è certa e con questa certezza attendeteci tutti vittoriosi in seno alle nostre famiglie”. Al di là del tono trionfalistico, si leggono, nonostante tutto, tra le righe la fede e attaccamento alla patria dei nostri soldati sparsi per il mondo.

Il 22 giugno 1941 Hitler decise di attaccare anche la Russia, contando di poterne distruggere le forze in poco tempo con l’aiuto, tra le altre, dei militari italiani. In pochi mesi raggiunse risultati spettacolosi, annientando o catturando milioni di soldati sovietici giungendo ad un centinaio di chilometri da Mosca. Sopravveniva, viceversa, il terribile inverno russo, imponendo l’arresto dell’offensiva hitle­riana.

All’attacco giapponese a Pearl Harbour, nelle Hawai (7 dicembre 1941) segui­rono le reciproche dichiarazioni di guerra fra gli Stati Uniti da una parte e le potenze del Tripartito dall’altra, nonché dell’Inghilterra al Giappone.

 

L’assedio di Stalingrado: la svolta nella guerra

L’’episodio che decise la seconda guerra mondiale si verificò in Russia. Nel mese di agosto 1942 i tedeschi iniziarono l’assedio di Stalingrado. Nel novembre ’42, dopo mesi di durissimi combattimenti, strada per strada, casa per casa, i sovietici contrattaccarono efficacemen­te sui fianchi dello schieramento nemico, e chiusero i tedeschi in una mor­sa. Anziché autorizzare la ritirata, Hitler ordinò la resistenza a oltranza, sacrificando così un’intera armata che, all’inizio di febbraio, fu costretta ad arrendersi. Per i tedeschi quello di Stalingrado fu il più grave disastro militare dall’inizio della guerra. Per i sovietici e per gli antifascisti di tutto il mondo, Stalingrado divenne immediatamente un simbolo di ri­scossa, il segno più evidente della svolta intervenuta nel corso della guerra.

Negli stessi mesi un’altra decisiva battaglia vedeva l’esercito britannico im­pegnato nel deserto del Nord Africa contro il contingente italo-tedesco del generale Rommel, che era giunto ad El Alamein, a soli 80 chilometri da Alessandria. A fine ottobre il generale Montgomery, comandante delle forze britanniche, poteva lanciare la controffensiva disponendo di una notevole superiorità in uomini e mezzi. Ai primi di novembre gli italo­tedeschi avevano perso la battaglia e cominciavano una lunga ritirata che li avrebbe portati, in tre mesi, a ripercorrere a ritroso tutto il litorale li­bico fino alla Tunisia. Frattanto, nel novembre ’42, un contingente al­leato era sbarcato in Algeria e in Marocco. Le truppe dell’Asse, prese fra due fuochi, dovettero arrendersi, nel maggio ’43, alle preponderanti forze alleate. Una volta chiuso il fronte nordafricano, con la definitiva cacciata di italiani e tedeschi, gli anglo-americani potevano prepararsi ad attaccare l’Europa.

Nel registro parrocchiale del Duomo – forse Monsignor Gnatta – annota nel mese di aprile 1943, in questo modo, il suo sconforto: “I dolorosi avvenimenti della guerra che, con tanta strage e rovina, va accumulando ogni giorno più le conseguenze terribili di tanti odi e vendette, fecero sentire in tutti il bisogno di implorare con funzioni straordinarie la misericordia divina e la cessazione di tanto flagello con una processione alla quale parteciparono tutte le Parrocchie della vicinanza. Nel pomeriggio della domenica 11 aprile ci fu il raduno nei paraggi della chiesa di San Giacomo ed ogni parrocchia sfilò in massimo ordine, preceduta dai propri sacerdoti in semplice veste nera portanti una croce ed indirizzata verso la spianata del Santuario. Furono cantati inni e salmi penitenziali accompagnati da profondo raccoglimento e spirito di penitenza. La processione durò quasi due ore e si calcola siano intervenute circa 10 mila persone, con gli uomini e donne in abito nero, velo al capo senza cappello o berretto”.

 

La caduta del fascismo e i 45 giorni del governo Badoglio

Il 10 luglio 1943 i primi contin­genti anglo-americani sbarcavano in Sicilia e in poche settimane si impa­dronivano dell’isola. Ma non tutti erano contenti. Monsignor Gnatta commenta: “il nemico avanzava trionfante sul suolo italiano, occupando la Sicilia ed un lembo della Calabria”. Nelle parole dell’alto prelato monselicense si ritrova l’incredulità di molti italiani che hanno condiviso fino alla fine la fiducia nel fascismo.

Lo sbarco anglo-americano rappresentò il colpo di grazia per il regime fascista che, screditato da un’incredibile serie di insuccessi militari, vede­va già da tempo moltiplicarsi al suo interno i segni di malcontento, evidenziato, nel marzo 1943, dai grandi scio­peri operai che avevano interessato tutti i maggiori centri industriali del Nord. Lo sciopero era il sintomo di un diffuso disagio popolare provocato dall’acuirsi delle difficoltà alimentari e dagli effetti dei bombardamenti aerei al­leati che, nell’inverno ’42-’43, avevano colpito sempre più frequentemen­te le città italiane.

A determinare la caduta di Mussolini fu una sorta di congiura (appoggiata dal Re) che vedeva tutte le componenti moderate del regime (industria­li, militari, gerarchi dell’ala monarchico-conservatrice) unite nel tentativo di portare il paese fuori da una guerra ormai perduta. Nella seduta del Consiglio dei ministri del 19 giugno, sembra che proprio Vittorio Cini abbia dichiarato l’insostenibilità della situazione militare, anticipando in qualche modo le successive prese di posizione delle più alte autorità fasciste. Mussolini non avrebbe perdonato la sua uscita, tanto da provocarne, probabilmente, l’arresto il 23 settembre a Roma ad opera delle SS e il suo trasferimento nel campo di concentramento di Dachau. Per uno strano gioco del destino, Vittorio Cini anticipò di pochi mesi la stessa fine che avrebbe compiuto il suo autista Alfredo Bernardini, con il quale condivideva forse gli stessi sentimenti. Tuttavia a differenza di Alfredo, il Cini contando sulle sue amicizie riuscì nel 1944 ad essere ricoverato in una clinica in Svizzera e a salvarsi.

In ogni caso nella notte fra i1 24 e il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del fascismo, durante una drammatica riunione, sfiduciò, a maggioranza, il Duce. Poche ore dopo Mussolini fu convocato da Vittorio Emanuele III e invitato a ras­segnare le dimissioni. Al suo posto il Re nominò il maresciallo Pietro Badoglio, mentre Mussolini veniva arrestato dai carabinieri.

L’annuncio della caduta di Mussolini fu accolto dalla popolazione con incontenibili manifestazioni di esultanza. Il Partito fascista, che per vent’anni aveva riempito la scena politica italiana, scomparve praticamente nel nulla.  “Come un baleno” – scrive il maestro Gattazzo –  “e con la rapidità del fulmine, si verifica in Roma il cambiamento del governo; e si diffonde ovunque in Italia e nel mondo, la più sorprendente delle novità… che porta subito all’abolizione di tutto ciò che si riferisce al Partito Nazionale Fascista. Il Duce diventa semplicemente il cav. Benito Mussolini !”.

L’euforia generale viene subito raffreddata il 30 luglio 1943 dal Vicario foraneo che notifica a tutti i parroci la disposizione vescovile padovana secondo la quale “è assolutamente vietato ai sacerdoti, di prendere parte a comitati o manifestazioni per affermare idee politiche, ecc. Dovendo il Sacerdote stare fuori e al di sopra di ogni partito, fino a che la competente autorità ecclesiastica non disporrà altrimenti; si ripete il divieto di parlare in pubblico di politica, e degli stessi attuali avvenimenti. In privato si raccomanda la prudenza e quel senso di dignità e correttezza nella vita sociale che specialmente in momenti burrascosi è tanto necessaria”. Ma i fatti dimostreranno che sono stati proprio i parroci, dopo l’8 settembre, a promuovere le coscienze dei padovani e a preparare il terreno per la resistenza. (Cfr. G.E. FANTELLI, La resistenza dei cattolici nel Padovano,  Padova 1965; P. GIOS, Resistenza, parrocchia e società nella diocesi di Padova 26 luglio 1943- 2 maggio 1945, Venezia 1981)

Con la caduta del fascismo gli italiani speravano nella fine della guerra. L’uscita dal conflitto si sarebbe però rivelata per l’Italia più tragica di quanto non fosse stata la guerra stessa. I tedeschi, che già avevano inviato in Italia forti contingenti di truppe per contrastare l’avanzata alleata, si affrettarono a rafforzare la loro presenza militare per prevenire, o punire, la ormai prevedibile defe­zione. Il governo Badoglio, dal canto suo, proclamò che nulla sarebbe cambiato nell’impegno bellico italiano. Ma intanto allacciò trattative se­gretissime con gli alleati per giungere ad una pace separata. Gli alleati nel frattempo operavano massicci bombardamenti sulle città italiane per costringere gli italiani alla resa.

 

La catastrofe dell’8 settembre 1943

Infine Badoglio negoziò l’armistizio con gli alleati, che fu firmato a Cassabile (Sicilia) il 3 settembre 1943, in segreto. Fu reso noto solo 1’8 settembre, in coincidenza con lo sbarco di un contingente alleato a Salerno.

L’annuncio dell’armistizio, comunicato da Badoglio al paese con un messaggio radiofonico, gettò l’Italia nel caos più completo. Nel tardo pomeriggio dell’8 settembre una vera folla di gente, si raduna anche presso la canonica di S. Bortolo, per sentire dalla viva voce del Parroco, o ascoltare direttamente dalla radio, la conferma della grande novità. “Corre sulla bocca di tutti, una parola tanto sospirata, che sembra recare, finalmente, la fine di tutti i mali: La pace! La pace! E’ fatta la pace! Si tratta, non della pace, ma del suo principio, dell’Armistizio con l’Inghilterra e l’America, che ora almeno non verranno più a bombardare le nostre città e i nostri paesi!”.

Mentre il Re e il governo abbandonavano la capitale per riparare a Brindisi, sotto la protezione degli alleati appena sbarcati in Puglia, i tedeschi procedevano a una sistematica occupazione di tutta la parte centro-settentrionale dell’Italia. Abbandonate a se stesse, con ordini vaghi e contraddittori, le truppe si sbandarono senza poter opporre ai tedeschi una resistenza or­ganizzata. Ben 600.000 furono i militari fatti prigionieri dai tedeschi e deportati in Germania. Molti sol­dati fuggirono cercando di tornare alle loro case. Gli episodi di aperta resistenza, che pure non mancarono, furono puniti dai tedeschi con veri e propri massacri.

“Moltissimi, anche tra i cari soldati della nostra Parrocchia, restano così intercettati da un ritorno tanto sospirato, e vengono internati in Germania, incertissimi della durata e dell’esito del nuovo destino! Tra questi: Rino Garbo, che era come il braccio destro del Parroco  per i servizi e la disciplina in chiesa, sosteneva il canto, anche da solo in mancanza di cantori; Angelo Corso già ben avviato nel suono dell’armonio; Rino Zambon, uno dei migliori elementi delle Associazioni Cattoliche; Angelo Targa insegnante e benemerito dell’Azione Cattolica; Bruno Bussolin, giovanissimo elemento, ricco di brio, di cameratismo”.

Nel pomeriggio del 10 settembre 1943 carri armati tedeschi, provenienti dalla direzione di Bologna, procedevano all’occupazione militare di Monselice; altri carri armati si diri­gevano verso Padova allo stesso scopo. L’Istituto Vincenza Poloni fu occupato dai tede­schi, che ne fecero sede del loro comando. L’occupazione avvenne senza colpo ferire e sen­za incidenti, fra la curiosità e l’ingenua indifferenza dei monselicensi che quasi sicuramente non si rendevano conto di quanto stava accadendo. Anzi, ci fu chi accolse i soldati tedeschi con plaudente espansione tanto da offrire loro, al bar Dal Din, bibite e vino, ricorda con ironia Celso Carturan. Nelle ore successive però a tutti fu chiaro che la situazione si stava mettendo al peggio.

“I nuovi padroni” – si commenta dal Duomo di Monselice – “si stanziarono con un piccolo comando nel palazzo dei Conti Balbi Valier e con un altro nella casa dei Cini a Montericco, dove praticarono con delle mine una galleria ed un rifugio contro le incursioni. In tanto trambusto di cose e di dolorosi avvenimenti si cercò che la vita parrocchiale non diminuisse del suo regolare andamento, anzi dovesse aumentare nello spirito di preghiera, di confidenza e di abbandono nelle mani di Dio”.

Sotto questi “lieti” auspici iniziava le sue funzioni il nuovo governo fascista repubbli­chino. I Prefetti cambiarono il nome in quello di “Capi della Provincia”. A reggere la Pre­fettura furono mandati fascisti di provata fedeltà, non importa se affatto incompetenti.

 

La guerra in Italia dopo l’8 settembre 1943

Le conseguenze del disastro dell’8 settembre si ripercossero anche sul­l’andamento della campagna d’Italia. Attestatisi su una linea difensiva (la linea Gustav) che andava da Gaeta a Pescara e aveva il suo punto nodale nella zona di Cassino, i tedeschi riuscirono a bloccare l’offensiva alleata fino alla primavera dell’anno suc­cessivo. Diventata campo di battaglia per eserciti stranieri, per la prima volta dopo le guerre napoleoniche, l’Italia doveva affrontare i momenti più duri di tutta la sua storia unitaria.


 


© 2025 a cura di Flaviano Rossetto

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